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2013

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Rahamim. Lingua, terra, misericordia
A cura di Francesca Brencio




Introduzione
Settembre 2013


La scrittura non è mai una vittoria sul nulla, ma l’esplorazione del nulla attraverso il vocabolo
E. Jabès

Questo volume monografico di Kasparhauser ha scelto come tema una parola che in sé è luogo e affezione. Ha scelto di occuparsi di Rahamim: così è chiamato l’utero nella lingua delle madri, la lingua di Miriam, la scelta dal Signore. Rahamim è una parola originaria, forse la prima delle dabarim che incontriamo nella storia della spiritualità, anche di quella spiritualità che ha scommesso sull’assenza del Nome e ha scelto di mantenersi sotto una volta priva di dei. Perché se di un Padre si può far a meno per stare al mondo, non così della Madre per venire al mondo. La storia dell’uomo nasce sotto il segno della madre, scrive Erri de Luca nel suo libro su Miriam, la madre di Yĕhošūá. Per giungere ad Abbà, la lingua della madri ha dovuto attendere un bambino che del Nome del Padre ne indicasse la cifra della tenerezza. Rahamim, gli uteri, si sono fatti pieni di fragilità per narrare e raccontare quel nome, prima che si sciogliesse nel canto (Sal 103), prima che diventasse poesia fra le mani di Yehuda Amichai. Di Rahamim sono le voci delle madri che chiedono sepoltura per i proprio figli ne Le supplici di Euripide.

C’è un legame particolare che la lingua ebraica intesse con la terra che l’ha generata. Poche lingue come quella ebraica sono la terra da cui provengono: sono i suoi colori, i suoi odori, i suoi numeri. Narra una famosa e bella canzone yiddish di un rabbino seduto accanto al fuoco insieme a dei bambini a cui insegna l’alfabeto. Nell’alfabeto egli insegna la Parola. Nella Parola i bambini trovano il Nome del Padre, quella parola che rimane non pronunciata e che si custodisce al fondo della fede.

Rahamim rimanda al calore della terra madre, lo spessore ctonio della terra misteriosa e misterica, il farsi spazio vuoto che sa accogliere e che invera la dimensione di natalità. Rahamim diventa “misericordia” nella lingua del traduttore, attributo di Dio che tenta di riconsegnare la parola alla Parola delle parole, corona di nomi non attribuiti: ki-’amarti ’olam hesedh yibbane (Sal 89, 3), “La mia grazia è stabilita per sempre”, tu sei l’oggetto della mia misericordia. Rahamim come misericordia, richiamo delle viscere materne che nella tradizione cristiana persino Dio sente: quella misericordia che è mista di dolore e compassione per Israele nelle lacrime che Dio stesso piange in segreto (Ger 13, 17), o che Yĕhošūá sente per la vedova di Nin (Lc 7, 11-17).

Narra il Talmud che Dio si ritira nei suoi luoghi segreti (bemistarim) per piangere; le sue lacrime sono il segno di una tenerezza infinita accompagnata da un’impotenza di fronte all’uomo. E Dio piange, ogni giorno — precisano i maestri talmudici. Come scrive Sergio Quinzio, questa immagine di Dio, sì misericordioso eppure anche impotente, è ciò che appare sin dalla prima pagina della Bibbia: la storia di Dio è una storia di sconfitte: “La creazione, in quanto altro da Dio, comporta almeno la possibilità di opporsi alla volontà di Dio, la possibilità della colpa e della morte: immediatamente dopo la ribellione di Adamo ed Eva, la Bibbia racconta l’assassinio di Abele compiuto dal fratello Caino. Entra così la morte, che Dio “non ha creato” (Sap 1, 13). [...] S’instaura, nel momento stesso della creazione, una condizione di estrema precarietà”. [1] L’Eterno piange ogni giorno le sue lacrime “per causa sua”, dice il Talmud. Nel Suo pianto, Egli non si rassegna né al proprio abbandono, fosse pure a una sola delle sue creature, né all'abbandono del mondo a quelli che intendono dedicarsi al culto della loro eloquenza, della loro superiorità intellettuale o sociale, o del loro successo materiale. Egli non si rassegnerebbe a vedere trionfare l'esilio (galuth) nell’anima delle creature. [2]

Ma Rahamim si fa anche flessione della finitezza umana, segno di una fenditura; diventa il nome di quella cura che restituisce all’uomo il posto sulla terra e fra le parole; infine, diventa parola della poesia che riannoda l’uomo alla terra, parola dell’assenza che ricorda un deserto popolato di nomi, parola di compassione, che intesse misteriose relazioni fra il dire e il silenzio. Rahamim è forse la misteriosa tenerezza della fragile natalità umana nell’esilio della parola. “Esilio della parola”: quello strappo che si generò dopo la caduta e che dette vita alla moltiplicazione delle lingue, lo strappo che fondò Babele e che pose la parola dall’altro capo della verità.

Il volume ospita contributi che provengono dalle più lontane regioni del sapere: Rahamim si declina fra la filosofia e la teologia, fra la psichiatria e la letteratura, fra l’arte e la toponomastica. Perché Rahamim, per essere, ha bisogno di tutte queste regioni della lingua, ha bisogno, cioè, di percorrere l’ampio raggio della parola che entra con tenerezza nella fenditura della nostra esistenza.

Nell’introdurre questo volume voglio ringraziare sentitamente il Cardinale Gianfranco Ravasi per avermi offerto delle preziose indicazioni bibliografiche che sono state un timone ben forgiato nel mare magnum degli studi sul presente argomento. Un ringraziamento altrettanto profondo lo devo ad Emilia Patruno, il cui bene sento come una carezza. Ringrazio profondamente tutti gli autori dei saggi qui raccolti che hanno contribuito, ognuno secondo il proprio ambito di ricerca, a rendere questo volume ricco di riflessioni. Infine, a Marco Baldino il mio grazie per avermi aiutato nella realizzazione fisica — nel luogo del non luogo, il web — del volume e per sostenere ogni mia ambiziosa scelta.
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[1] S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1992, p. 39 e s.
[2] Cfr. C. Charlier, Il trattato delle lacrime. Fragilità di Dio, fragilità dell’anima, Queriniana, Brescia 2004, p. 70 e ss.



Mark Rothko, Untitled, 1958


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